Nuove tecnologie: lo specchio su cui riflettere

Negli ultimi mesi abbiamo assistito a un acceso dibattito intorno all’uso di smartphone e altri dispositivi nella fascia di età under 14. Il can can mediatico, come sempre, è stato seguito da tentativi di politicizzare un tema che dovrebbe mantenere una valenza bipartisan: la salute.

Tutto comincia dalla petizione lanciata da un gruppo di psicopedagogisti affinché la politica si impegni a “far sì che nessuno dei nostri ragazzi e delle nostre ragazze possa possedere uno smartphone personale prima dei 14 anni e che non si possa avere un profilo sui social media prima dei 16”. Grazie alla piattaforma change.org, la petizione raccoglie 15.000 firme a cui seguono le prese di posizione della maggioranza intorno alla proposta di legge di vietare tecnologie connettive prima dei 14 anni.

Ovvio che l’uso sconsiderato, incondizionato e non opportunamente controllato non può che avere deleterie conseguenze sulla salute di chiunque e questo vale maggiormente in una fase della vita in cui si costruiscono valori, competenze cognitive, oltre che strategie relazionali.

Ma il tema a nostro avviso è un altro e rischia di tagliare fuori dalle pratiche, anche professionali, strumenti che possono rivelarsi invece validi alleati anche e soprattutto per chi lavora con i pazienti molto giovani.

La psicotecnologia ormai ha raggiunto la legittimità di disciplina a sé stante ed è sempre più oggetto di interesse e studio anche nel nostro Paese. Da anni, studi e ricerche sostengono che è possibile un uso positivo dei device più avanzati che, opportunamente impiegati, possono addirittura potenziare i risultati, riducendo tempi, facilitando la relazione paziente-professionista e superando alcuni limiti delle tecniche più tradizionali.

 Il dibattito attuale, dal nostro punto di vista, è fuorviato da una scarsa consapevolezza delle opportunità offerte dagli strumenti tecnologici e una sovrapposizione tra strumento, contenuto e pratica, con il rischio di scambiare dunque il dito per la luna.

Lo strumento possiamo farlo coincidere con la parte hardware dell’esperienza tecnologica, con l’oggetto in senso stretto che, pur non essendo neutro o neutrale, non possiamo associarlo ad effetti negativi se non consideriamo gli altri due elementi (contenuto e pratiche).

Sono infatti i contenuti che selezioniamo o che vengono selezionati in funzione dei nostri tracciamenti a potere avere effetti positivi o negativi sul nostro benessere e sulla nostra salute. Tali contenuti, a loro volta, dipendono dalle pratiche, ovvero dagli usi che riserviamo alle tecnologie stesse.

Generalizzare un discorso di divieto secondo un mero indicatore cronologico (l’età) non avrebbe alcun vantaggio per i più giovani: anzi rischierebbe di creare attese e usi clandestini come molte altre forme di proibizionismo.

Riteniamo piuttosto che la tecnologia debba essere considerata piuttosto a uno specchio, capace di contenere e riflettere noi, il nostro agire e in cui possiamo ritrovare buone e cattive abitudini che potremmo anche decidere di correggere.

Ricordiamo, ad esempio, che a livello europeo e ci auguriamo sempre più anche nel nostro Paese, le tecnologie positive sono state riconosciute come veri e propri dispositivi sanitari, strumenti/percorsi di cura accessibili alla popolazione anche tramite il sistema sanitario pubblico.

L’intervento flat su una politica di divieto avrebbe ricadute anche nel percorso di assimilazione, riconoscimento e legittimazione di percorsi di cura che a volte potrebbero l’alternativa più valida di intervento.

In questa riflessione si inserisce anche il dibattito intorno al videogioco, da sempre considerato un prodotto culturale mediale che favorisce comportamenti ossessivi, antisociali, in base ai contenuti anche violenti e di scarso controllo.

Ancora una volta è la pratica professionale e l’esperienza della ricerca in questi ambiti che sfata ogni possibile pregiudizio verso il videogioco che, al pari del gioco, costituisce invece un ambiente digitale protetto utilizzabile per esperienze moratorie di crescita personale e di elaborazione di vissuti complessi. Recentemente, sulla rivista Frontiers in Psychiatry, ricercatori dell’Università di Bonn in Germania hanno scoperto che le persone affette da disturbo depressivo maggiore hanno visto una riduzione dei sintomi dopo un percorso in cui venivano seguite in sedute in cui giocavano ad un  videogioco commerciale (in questo caso, i partecipanti giocavano a Super Mario Odyssey, un gioco che usciva sulla console Nintendo Switch nel 2017). È il primo studio internazionale randomizzato e controllato di questo tipo a esaminare gli effetti di un intervento di sei settimane di terapia con un videogioco su soggetti con disturbo dell’umore. Ma come questo ce ne sono ultimamente molti altri, anche in Italia ci sono ricerca sul gaming terapeutico in atto sia con Universitá Bicocca di Milano, sia nelle Universitá di Bergamo e Torino.

La Video Game Therapy® si basa proprio sull’utilizzo del videogioco commerciale come spazio di incontro e di intervento terapeutico tra terapeuta e paziente e diversi progetti sia di percorsi individuali che di gruppo sono oggi già realizzati in Italia presso vari Dipartimenti di salute mentale (Ancona, Siena, Varese, Imperia, Padova, Bergamo, Reggio Emilia, Brescia) e presso Cooperative private che gestiscono Comunitá doppia-diagnosi e per le nuove dipendenze coma la ludopatia, comunitá psichiatriche a media protezione e nell’ambito della neuropsichiatria; come anche laboratori in piccolo gruppo presso numerosi comuni in Provincia di Brescia, dove afferiscono ragazzi segnalati dai servizi sociali di zona. Un altro esempio è dato anche dal Centro Diurno di Travagliato (BS), dove la VGT viene utilizzata con ragazzi in messa alla prova presso il Tribunale dei Minorenni di Brescia e segnalati dall’USSM locale.

 

L’apertura radicale (Radical Openness) intesa sia come modalità di comportarsi che come stato mentale, si basa su tre capacità pregnanti all’interno del training VGT quali: Openness, Flexibility e Social Connectedness che si traducono in un setting aperto a nuove esperienze o a feedback di disapprovazione per imparare qualcosa di nuovo o per adattarsi all’ambiente in modalità più funzionali; significa sviluppare, nel videogioco, una passione che a volte ci porta ad andare al contrario di dove siamo. Tale caratteristica è più della consapevolezza consapevole; vuol dire cercare in modo attivo quelle aree della nostra vita che vogliamo evitare o che potremmo trovare scomode, per affrontarle e imparare dalle stesse.

Il ruolo dei professionisti e delle professioniste della salute è anche quello di offrire discernimento all’interno di un dibattito opaco e fuorviato da interessi privati, da populismi e dalla scarsa informazione: un uso positivo delle tecnologie è possibile. E passa anche attraverso la presa di responsabilità della collettività rispetto al controllo e alla legittimazione di alcuni contenuti, accanto alla necessità di sostenere la ricerca e la sperimentazione delle tecnologie per usi più costruttivi, di intervento per la salute e il benessere di tutt*.

 

Dott. Francesco Bocci, psicologo e psicoterapeuta, e Dott.ssa Alessandra Micalizzi, psicologa

 

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  • Bocci F. Dentro il Videogioco. Viaggio nella psicologia dei videogiochi e nei suoi ambiti applicativi. Torino: Ananke Lab; 2019.
  • Csikszentmihalyi M. Flow: La psicologia dell’esperienza ottimale. Harper Collins: New York, NY, USA; 1990
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Simona Silvestro, Psicologa e terzo settore