Il recente numero del “Venerdì di Repubblica” suscita scalpore per aver riportato in copertina e in un articolo, arricchito dal commento di Vittorio Lingiardi, una disamina sulla situazione della psicologia italiana non priva di critiche appuntite.
Si focalizza sull’attività divulgativa e promozionale di colleghe e colleghi che puntano a posizionarsi a livello mediatico, soprattutto sui social network, attraverso contenuti di vario livello. Vengono riportati nomi e foto di psicologhe, psicopedagogisti e psichiatri con il numero dei loro follower su Instagram e Tik Tok che ammonta a decine di migliaia.
La copertina si riferisce espressamente agli “psico-cialtroni”: leggiamo questo termine con un sorriso, senza offenderci; però queste pagine sovrappongono stili diversi senza distinguere informazione e sensibilizzazione talvolta di ottima fattura da iniziative di minor qualità. Vi viene comunque sottolineato quanto la professione psicologica possa scadere in degradazioni e ci sprona a metterci in discussione.
Quali le ragioni dell’autopromozione e della divulgazione, più o meno valida? Ne rintraccio almeno due che vanno lette sia dal lato dei pazienti sia dal lato dei clinici: una sta nella progressiva dismissione delle istituzioni pubbliche; l’altra nella digitalizzazione del mondo accelerata dall’emergenza pandemica.
La crisi delle istituzioni pubbliche
Pochi mesi or sono scrissi un articolo sulla diffusione delle piattaforme online. Psicoterapia online: opportunità o mercificazione della pratica clinica? – Agenda Digitale
La mia tesi fondamentale è che trovino terreno fertile sulla base della carenza delle istituzioni pubbliche. Leggo che pure David Lazzari, Presidente del CNOP, afferma questa tesi nel suddetto articolo riproponendo giustamente lo psicologo di base. Presumo siano evidenti a tutti le poche risorse della psicoterapia pubblica, anzitutto per l’esiguità degli operatori. Porto un’esperienza personale, relativa alla Lombardia ma che credo sia estendibile ad altre regioni: il mio primo incontro con la clinica istituzionale è stata nel campo delle dipendenze. Allora si verificava un acceso dibattito, per esempio, fra chi era pro e chi contro l’erogazione del metadone oppure fra fautori del trattamento ambulatoriale e di quello comunitario. Le discussioni nelle istituzioni pubbliche vertevano su ragioni di cura e su una certa eticità nell’approccio alla clinica. Si trova qualche traccia di tale dibattito nella famosa serie “Sanpa”.
Erano gli anni del berlusconismo che hanno portato alla privatizzazione della sanità e all’accreditamento delle prestazioni; ogni settimana, noi operatori compilavamo l’elenco di colloqui, sedute di psicoterapia, test, visite in comunità, riunioni d’équipe che i Direttori della Struttura inserivano nel PC istituzionale nel segreto delle loro stanze per poi avere incentivi economici in base alla quantità di prestazioni. Si è verificata una crescente aziendalizzazione delle istituzioni pubbliche mentre burocrazia e lottizzazione partitica hanno posto in secondo piano la clinica. Diverso è invece, per fare un confronto, l’investimento sul Welfare in Svizzera.
Nelle istituzioni vi sono poche assunzioni e si opera spesso senza desiderio. Le retribuzioni sono mediocri nel privato sociale, nei consultori di orientamento cattolico, nel terzo settore: dunque gli psicologi puntano a lavorare nel privato il che richiede di pubblicizzarsi. Dal lato dei pazienti, molte persone soffrono nel corpo e nella mente; dinanzi a carenze istituzionali e a ristrettezze economiche, trovano un primo aiuto nelle piattaforme e nella divulgazione psicologica. Questo dimostra il positivo sdoganamento del lavoro su di sé al quale concorrono l’incremento dei corsi di laurea in Psicologia che diffondono una cultura psicologica e l’informazione volta ad abbattere lo stigma sulla salute mentale.
La fiducia nei dispositivi digitali
In passato ci si rivolgeva a un terapeuta sulla base del suo curriculum, apprezzandone l’esperienza, per il passaparola di qualcuno che vi si era trovato bene risolvendo i propri sintomi, le proprie inibizioni, la propria angoscia. Imprescindibile erano l’aver svolto un’analisi personale e delle supervisioni o intervisioni così come il far parte di comunità scientifiche. Ormai si ha invece fiducia in chi assume una posizione di prestigio online.
Lo notiamo anche come docenti universitari: gli esami – a torto o a ragione – vengono preparati meno sui libri e di più guardando video di conferenze o leggendo brevi articoli trovati sul web. Dunque cruciale è l’identità digitale e mediatica del clinico. Si basa molto sul potere di suggestione, di convincimento dell’immagine. Ne trae vantaggio chi possiede un bell’aspetto e caratteristiche esibizionistiche tali da bucare lo schermo. Osserviamo, specialmente nelle giovani generazioni: il farsi un sito web curato e iperattivo che va indicizzato con parole-chiave per comparire in prima pagina sui motori di ricerca; l’investimento economico per sopravanzare i colleghi sull’elenco psicologi in una prospettiva competitiva; il porsi appunto come “influencer” che fanno divulgazione sui social.
Risulta impossibile rimanere del tutto avulsi da queste dinamiche e perciò i liberi professionisti sono comunque portati, presto o tardi, chi più e chi meno, a diventare imprenditori di sé stessi. Con qualche eccezione per colleghi di una certa età e dotati di una solida rete di invianti, i clinici svolgono dell’autopromozione. Sospendiamo ogni giudizio, che sarebbe peraltro moralistico da parte dei senior nei confronti dei giovani colleghi, dinanzi a questi fenomeni della contemporaneità. Rispettiamo lo stile di ciascuno e ribadiamo che la divulgazione viene non di rado effettuata in modo incriticabile, ineccepibile.
I limiti del sapere
Cosa irrita quando i clinici si pongono come influencer? Qualcuno sostiene che se ne invidia il successo. Può darsi sia una parte della questione. Quello che suscita reazioni, critiche, ironie e derisioni mi pare però principalmente la posizione da loro assunta nei confronti del sapere. Studiare è fondamentale; oltre che di psicologia, è bene conoscere qualcosa di letteratura, d’arte, d’antropologia, di filosofia, di sociologia. Sempre, però, riconoscendo il nostro immenso non-sapere. Abbiamo molti punti di non-sapere; abbiamo un sapere teorico ma ciò non basta per la cura di una specifica persona. Siamo in grado di accoglierla nei nostri studi, la ascoltiamo con interesse in modo attivo e avvertito, le proponiamo delle interpretazioni ma ogni paziente rimane un caso assolutamente singolare. Quando si agisce da influencer spiegando cos’è l’amore, come fare per non soffrire più, in che modo riconquistare il partner, quando nel box delle domande si risponde in due righe a interrogativi circa i sogni, l’ansia o la bulimia sembra invece di somministrare soluzioni valide per tutti. Questo tipo di comunicazione favorisce la nostra professione o le nuoce? Aiuta i follower oppure ostacola il loro percorso di ricerca della propria verità soggettiva?
Roberto Pozzetti
LinkedIN